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Il canto di Kòmati. (Antica leggenda giapponese)

 

O lago splendente di Bivu!

eccelso, lontan Fusijama!

o Kioto sacrata, richiama

l’immagine vostra un amor!

Amore finito nel pianto

di piccola e tenue musmè:

Kòmati. Più d’essa non v’è

Amante fedele al dolor.

 

Er’una soave fanciulla,

e stava tra i fiori a sognare…

un giorno la vide passare

il figlio del Tenno, e l’amò.

A lei parlò timido e incerto

il principe, offrendole amore,

e serto imperiale ed onore…

ma Kòmati fredda restò.

 

– O principe sacro e divino,

o grande e sublime signore,

l’amore che t’agita il core,

io certo calmar non potrò.

Oh! lasciami sola a sognare

quell’umile amore che aspetto.

Son povera… che? sul mio petto

dovrà il Grande Interno posar?…

 

Ma languido e incerto, l’amante

guardava la bella fanciulla…

Non era un pensiero da nulla,

se tanto sfioriva d’amor.

E un giorno che Kòmati vide

negli occhi del principe amante

le lacrime amare, e un sognante

guardare infocato, tremò.

 

– Se m’ami davver, come dici,

se amore prometti infinito,

un segno me n’offri. T’invito

di notte a cantare per me.

Se tu per novanta nottate,

qui presso a cantare verrai,

tua schiava d’amor mi vedrai,

rinchiusa al palazzo con te. –

 

Con luna d’argento o con pioggia,

con vento o stellato sereno,

un canto tremante, dal seno

notturno, anelando s’alzò.

– O Kami, divini antenati

che tanto v’amaste, l’amore

di sposa-sorella nel core

ponete a chi mia resterà! –

 

Sol l’ultima notte mancava.

La voce cantava più forte,

e Kòmati bella, alla sorte

sua grande, sicura pensò.

Ma appena discesa la sera,

si udì un pauroso boato,

seguiva uno schianto, e gelato

il core nel petto agghiacciò.

 

La terra tremava, e le case

crollavano al suolo scroscianti.

Fra polvere e gridi invocanti,

la gente atterrita fuggì.

Ma sola, ferita e convulsa,

restava l’ardente fanciulla.

Il cuor le batteva… più a nulla

pensava, e sentiva dolor.

 

Un canto attendeva ansiosa,

quell’uomo aspettava angosciata,

che lei, nella tetra nottata

tra folle agitate cercò!

E quando il chiarore dell’alba

la vide tremando vibrare,

e il volto di pianto rigare…

cercò qualche cosa, e fuggì.

 

Va, esile e pallida preda

di lugubri e strane paure,

e piange lasciando le scure

rovine del nido che amò.

Lontano, severa si leva

dal verde del mare la muta

Yeso selvosa e sperduta,

e lì si nascose, e cantò:

 

– Un lago immobile e nero

e che non riflette le stelle,

o un fiume che corre ribelle

al mare, nel qual finirà,

è l’alma che in petto mi vive…

Io piango perché non ho amore,

io soffro, perché nel dolore

m’ha immerso il destino crudel!…

 

Il cuore non vede che nero,

più nero di notte profonda,

più nero di un vortice d’onda…

e brancola in nero squallor!…

 

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